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La grande disconnessione
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Global Equity Observer
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luglio 28, 2025
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luglio 28, 2025
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La grande disconnessione |
Il secondo trimestre è stato pieno di eventi. Tutto è iniziato con una brusca flessione dei mercati a inizio aprile, in seguito all’annuncio dei dazi del “Liberation Day”. La successiva correzione delle politiche doganali, indotta dalla turbolenza dei mercati, ha determinato un forte rialzo, portando gli indici azionari a nuovi massimi storici e trasformando un calo dell’indice MSCI World superiore al 10% (all’8 aprile) in un rialzo dell’11% nel secondo trimestre, il più marcato da quello del 2020, quando i mercati si ripresero dai minimi dell’era Covid.
Sebbene una parte della ripresa sembri giustificata dal miglioramento del contesto rispetto all’inizio di aprile, l’attuale clima euforico – con valutazioni elevate e afflussi record da parte degli investitori retail – appare difficile da giustificare alla luce delle modeste prospettive di crescita e delle molteplici fonti di incertezza. Di fatto, intravediamo una netta discrepanza tra lo stato dei mercati e lo stato del mondo reale.
Le prospettive economiche sono migliorate rispetto al minimo di inizio aprile. Nonostante la revisione al ribasso delle aspettative di crescita per quest’anno – secondo il consenso Bloomberg il PIL reale degli Stati Uniti crescerà dell’1,5% nel 2025, un valore inferiore alla stima del 2% di inizio anno – si tratta comunque di uno scenario ben lontano da quello di base di Wall Street, che ipotizzava una recessione negli Stati Uniti subito dopo l’annuncio dei dazi del “Liberation Day”. Analogamente, sebbene l’inflazione rimanga ostinata e superiore all’obiettivo del 2% della Federal Reserve (Fed), non abbiamo ancora visto un’accelerazione indotta dai dazi.
L’aspetto maggiormente positivo è che il “taco trade”, un concetto introdotto dai media secondo cui l’amministrazione Trump tenderebbe a fare marcia indietro rispetto alle politiche che hanno colpito duramente i mercati, ha dato i suoi frutti finora e potrebbe continuare a funzionare. Il dibattito sul “taco trade” ha riguardato principalmente le imposte doganali dopo il passo indietro sui dazi “reciproci”, con l’introduzione di una sospensione di 90 giorni il 9 aprile.
Gli “adeguamenti Taco” vanno in realtà oltre la sfera commerciale. Anche i timori delle imprese in merito all’immigrazione – o, più precisamente, al rimpatrio degli immigrati clandestini negli Stati Uniti – si sono attenuati, grazie ai recenti segnali di maggiore tolleranza da parte dell’amministrazione nei confronti dei lavoratori senza permessi, in particolare nel settore agricolo. Inoltre, le dichiarazioni sulla riduzione del disavanzo pubblico, basata su un presunto massiccio taglio della spesa da parte del DOGE10, che minacciava di frenare la domanda negli Stati Uniti, hanno assunto toni più moderati, culminando nella versione finale del One Big Beautiful Bill Act destinata ad aumentare il debito nazionale statunitense di altri 3.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio, secondo le stime del Congressional Budget Office. Ciò dovrebbe fornire un impulso espansivo all’economia nel 2026, attenuando l’effetto di contrazione causato dai dazi.
L’aspetto meno positivo è che per l’economia e i mercati permangono notevoli ostacoli politici, in quanto gli impatti economici negativi dei recenti cambiamenti delle politiche economiche non sono ancora pienamente in vigore. Gli accordi in essere implicano un’aliquota doganale effettiva del 15%,2 di gran lunga superiore a quella precedente del 2,5%. Ciò costituirebbe di fatto sia una tassa per i consumatori sia uno shock inflazionistico e questo ancor prima di eventuali ulteriori aumenti dei dazi al termine della sospensione di 90 giorni. È probabile che gli effetti completi di questi dazi già in vigore sui prezzi al consumo non si siano ancora pienamente manifestati. Analogamente, la crescita del mercato del lavoro statunitense è destinata a rallentare bruscamente, con Barclays che si aspetta una crescita di appena lo 0,1% nel 2026 e nel 2027 rispetto al livello dell’1% o più a cui è abituata l’economia statunitense, sia a causa dell’invecchiamento della popolazione che della bassissima immigrazione netta, che minaccia sia la domanda aggregata che i margini societari. Più in generale, l’incertezza sulle misure politiche rimane molto elevata, non da ultimo intorno alla scadenza della pausa di 90 giorni, con implicazioni per la fiducia sia dei consumatori che delle imprese.
Amministrazione statunitense a parte, dall’inizio di aprile i mercati hanno beneficiato della spinta di altri due sviluppi. Il primo è la crescita costante delle stime di spesa in conto capitale da parte degli hyper-scaler, nonostante lo shock causato da DeepSeek a inizio anno, poiché i colossi del settore tecnologico continuano a prevedere una domanda massiccia di potenza di calcolo. L’altro è l’indebolimento del dollaro, evidenziato da una flessione superiore al 10%3 da inizio anno dell’indice ICE Dollar. Il fenomeno favorisce nel complesso i ricavi e gli utili denominati in dollari, dato che la metà dei ricavi delle società dell’indice MSCI World e persino il 40% dei ricavi generati dalle società dell’indice S&P 500 sono denominati in altre valute.
Sebbene alcuni dei rischi estremi di aprile sembrino essere svaniti, le prospettive generali suggeriscono un contesto di crescita mediocre, con gli Stati Uniti destinati a crescere a solo l’1,5% nel 2025 e nel 2026, al di sotto dei livelli attesi a inizio anno, e l’Unione europea ancora più lenta, ferma a circa l’1%. Su queste prospettive poco entusiasmanti aleggia inoltre un’incertezza stranamente elevata, dovuta alle tensioni geopolitiche e all’instabilità delle politiche statunitensi, che induce gli economisti ad assegnare un’elevata probabilità (il 38%) allo scenario di un’entrata in recessione degli Stati Uniti nei prossimi 12 mesi. Sebbene i peggiori timori di inizio aprile non si siano concretizzati, è difficile sostenere che da inizio anno il contesto sia migliorato.
Di contro, i mercati sembrano inglobare nei prezzi un contesto completamente diverso, apparentemente disconnesso dalle economie reali. Le valutazioni azionarie appaiono decisamente elevate in termini storici. L’indice MSCI World scambia a circa 20 volte gli utili prospettici, mentre l’indice S&P 500 a 22. Multipli così elevati si basano su utili prospettici che dovrebbero crescere a due cifre su margini che sono già ai massimi storici. Tutto questo accade quando gli utili statunitensi sono in realtà in calo e le aspettative per l’S&P 500 nel 2025 e 2026 sono state riviste al ribasso del 4% circa da inizio anno, anche tenendo conto del rapido deprezzamento del dollaro. Anche i mercati obbligazionari sembrano piuttosto euforici, con lo spread dell’indice ICE BofA BBB US Corporate in calo di 110 punti base4 e vicino ai minimi storici raggiunti a inizio anno.
Oltre alle valutazioni complessive elevate, ci sono moltissime altre prove che i mercati sono turbolenti, euforici o gonfiati (ognuno scelga l’aggettivo che preferisce). L’Indicatore dell’euforia azionaria di Barclays è risalito di oltre il 10%, raggiungendo livelli paragonabili a quelli della bolla dot-com e della febbre dei meme del 2021. Non c’è da stupirsi, considerando che nel primo semestre gli investitori retail hanno conferito nell’azionario la cifra record di 155 miliardi di dollari.5 Esaminando i fattori che hanno determinato il rialzo dei mercati azionari, oltre la metà del guadagno a doppia cifra dell’MSCI World nel secondo trimestre è riconducibile a solamente due dei 25 gruppi settoriali: semiconduttori, da una parte, e software e servizi, dall’altra. L’85% della performance è stato generato da cinque settori soltanto: i due appena citati e poi media e intrattenimento ciclici, banche e beni strumentali.
In sintesi, la nostra opinione è che la stima più realistica per le prospettive future sia mediocre – e soggetta a un alto grado di incertezza. Di contro, i mercati sembrano scontare uno scenario di crescita più elevata con un alto livello di certezza. Ci sono molte prove di un comportamento euforico da parte degli investitori retail – che ora si sentiranno ancora più giustificati a comprare ad ogni ribasso. Davanti a un simile ottimismo dei mercati, non sorprende che il secondo trimestre non abbia fornito un contesto favorevole per le società di alta qualità – quelle con una bassa leva operativa e finanziaria – che tendono a dar prova della propria solidità nei periodi difficili. Dopotutto, il mercato sembra escludere qualsiasi possibilità di tempi duri! Tuttavia, se la forte discrepanza tra mercati e realtà da noi osservata è almeno in parte corretta, le società di alta qualità avranno probabilmente l’occasione di dimostrare il proprio valore.
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Managing Director
International Equity Team
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