Approfondimenti
Shrinkflation
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Global Equity Observer
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giugno 28, 2022
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giugno 28, 2022
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Shrinkflation |
All’economista Pippa Malmgren viene attribuito il merito di aver coniato il termine “shrinkflation”, che, nell’uso più comune, indica la decisione di un’azienda di ridurre le dimensioni di un prodotto mantenendone inalterato il prezzo. Un utilizzo meno comune di questo termine può riferirsi alla situazione macroeconomica per la quale l’economia si contrae e allo stesso tempo i prezzi aumentano, meglio conosciuta come stagflazione. In un contesto di tassi e inflazione in aumento, anche i mercati stanno subendo una contrazione in netto contrasto con il costo della vita. Negli Stati Uniti, l’indice dei prezzi al consumo di marzo ha evidenziato un tasso d’inflazione annuo dell’8,5%, il dato più alto da dicembre 1981 a oggi.
Fino a questo momento l’inflazione è stata trainata dalle “cose”, cioè dalla carenza di beni e materie prime in quanto, dopo la crisi del Covid-19, le economie nei mercati sviluppati sono rimbalzate grazie agli effetti congiunti del massiccio intervento governativo e del miracolo dei vaccini. La situazione è stata resa più complicata dall’invasione russa dell’Ucraina che ha causato shock sul lato dell’offerta di beni alimentari e di energia e che potrebbe peggiorare ulteriormente se i continui lockdown dovuti al Covid-19 dovessero impattare la produzione cinese.
L’interrogativo che ci si pone è se l’inflazione si trasferirà dalle “cose” alle “persone”, cioè se si tradurrà in un aumento dei salari in un mercato del lavoro saturo, dove i posti di lavoro sono facili da reperire, ma difficili da collocare. La crescita dei salari negli Stati Uniti ha subito un’accelerazione, arrivando al 5%,1 il valore più alto registrato nell’ultimo secolo, pur mantenendosi al di sotto del tasso di inflazione al consumo che implica un calo dei salari reali. Per le aziende si tratta di una situazione paradossale: se i salari aumentano, rischiano di comprimere i margini, ma se non aumentano, rischiano di ridurre i salari reali e compromettere i consumi e, di conseguenza, il fatturato.
La shrinkflation è la soluzione che sempre più spesso viene adottata delle aziende per far fronte all’inflazione: meno strappi nel rotolone, meno misurini per flacone, meno lavaggi per confezione. Le aziende ridimensionano i prodotti senza diminuire i prezzi, per mantenere o aumentare gli utili e, allo stesso tempo, cercare di gestire il rincaro dei materiali, della manodopera, dell’energia, degli imballaggi e dei trasporti, o per mantenere le quote di mercato data la concorrenza sempre più agguerrita. Il settore dei servizi non è esente dal fenomeno: dopo la pandemia, alcune catene alberghiere hanno reso le pulizie giornaliere delle camere un servizio a richiesta e non sembrano avere alcuna fretta di ripristinare il servizio della prima colazione. In generale i consumatori sono più sensibili al prezzo che al contenuto, di conseguenza il ridimensionamento di una busta ribrandizzata o riconfezionata (in pratica, più piccola) viene percepito non in modo così negativo o viene a malapena notato. Tuttavia, le aziende devono stare attente ai possibili contraccolpi e non possono permettersi di ridimensionare in maniera continuativa i propri prodotti, per non rischiare di perdere la fiducia dei consumatori. In un mondo dominato dai social media e dall’enfasi sull’integrità, come è il 2022, è più probabile che le aziende che si concentrano sulla shrinkflation vengano chiamate a rendere conto del ridimensionamento della loro offerta.
Finora le previsioni sugli utili aziendali si sono rivelate esenti da questi timori. Da inizio anno, le stime degli utili prospettici a 12 mesi dell’indice MSCI World sono aumentate del 6%2 in quanto, per il momento, le aziende beneficiano dell’impatto che l’inflazione sta avendo sui ricavi senza risentirne a livello di margini. In effetti, i margini sull’EBIT3 rimangono a livelli estremamente elevati, avvicinandosi al 17% per l’indice MSCI World, rispetto al picco pre pandemia del 15% e alla media ventennale del 13,4%.2 Questi margini così tirati sono minacciati sia dall’inflazione stessa che da eventuali rallentamenti economici dovuti ai tentativi di contrastare l’inflazione. Un aspetto fondamentale per gli investitori per muoversi in questo contesto è quello di concentrarsi su aziende caratterizzate da fondamentali solidi e da potere di determinazione dei prezzi, ovvero della capacità di trasferire ai consumatori i costi della produzione, che si tratti di “cose” o “personale”.
All’inizio dell’anno nutrivamo forti preoccupazioni sia per gli utili sia per i multipli. Cinque mesi di declassamento hanno attenuato i nostri timori sui multipli, che comunque non sono affatto bassi, in quanto si trovano ancora all’estremità superiore dell’intervallo osservato tra il 2003 e il 2019. Se non altro, non sono più del 20% al di sopra di quell’intervallo. Viceversa, i nostri timori sugli utili hanno continuato a crescere, insieme agli utili stessi, aggravati dai crescenti rischi per i margini di profitto tirati, che potrebbero derivare dall’inflazione o da una flessione economica. Dati i rischi sugli utili, potrebbe essere un momento particolarmente opportuno per avere in portafoglio dei compounder, cioè delle aziende in grado di far crescere gli utili in maniera costante nel tempo, possedendo il potere di determinazione dei prezzi e dei ricavi ricorrenti che fanno si che gli utili si mantengano resilienti in tempi difficili.
Considerazioni sui rischi
Non vi è alcuna garanzia che l’obiettivo d’investimento del portafoglio sarà raggiunto. I portafogli sono esposti al rischio di mercato, ovvero la possibilità che il valore di mercato dei titoli detenuti dal portafoglio diminuisca. I valori di mercato possono cambiare quotidianamente a causa di eventi economici e di altro tipo (ad esempio, catastrofi naturali, crisi sanitarie, terrorismo, conflitti e disordini sociali) che influenzano i mercati, i Paesi, le aziende o i governi. È difficile prevedere le tempistiche, la durata e i potenziali effetti negativi (ad esempio, la liquidità del portafoglio) degli eventi. Di conseguenza, l’investimento in questa strategia può comportare una perdita per l’investitore. Inoltre, la strategia può essere esposta ad alcuni rischi aggiuntivi. I mutamenti che investono l’economia mondiale, la spesa al consumo, la concorrenza, i fattori demografici, le preferenze dei consumatori, le norme varate dai governi e le condizioni economiche possono influire negativamente sulle società che operano su scala globale e produrre sulla strategia un impatto negativo maggiore rispetto a quello che si sarebbe avuto se il patrimonio fosse stato investito in un più ampio ventaglio di società. Le valutazioni dei titoli azionari tendono in genere a oscillare anche in risposta a eventi specifici in seno a una determinata società. Gli investimenti nei mercati esteri comportano rischi specifici, quali rischi di cambio, politici, economici e di mercato. I titoli delle società a bassa e media capitalizzazione comportano rischi particolari, come l’esiguità delle linee di prodotto, rischi relativamente alle risorse finanziarie e di mercato e possono registrare una maggiore volatilità rispetto a quelli di società più consolidate di dimensioni maggiori. I rischi associati agli investimenti nei mercati emergenti sono maggiori di quelli associati agli investimenti nei mercati sviluppati esteri. Gli strumenti derivati possono amplificare le perdite in maniera sproporzionata e incidere significativamente sulla performance. Inoltre possono essere soggetti a rischi di controparte, di liquidità, di valutazione, di correlazione e di mercato. I titoli illiquidi possono essere più difficili da vendere e valutare rispetto a quelli quotati in borsa (rischio di liquidità). I portafogli non diversificati spesso investono in un numero più ristretto di emittenti. Pertanto, le variazioni della situazione finanziaria o del valore di mercato di un singolo emittente possono causare una maggiore volatilità. Le strategie ESG che incorporano investimenti a impatto e/o fattori ambientali, sociali e di governance (ESG) potrebbero generare una performance relativa che si discosta da quella di altre strategie o benchmark generali a seconda del gradimento del mercato verso tali settori o investimenti. Di conseguenza, non vi è alcuna garanzia che le strategie ESG possano offrire una migliore performance relativamente agli investimenti.
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Managing Director
International Equity Team
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COO and Head of Client Experience, International Equity
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